di JUAN CARLOS DE MARTIN*
E’davvero singolare. Da circa 15 anni viviamo, grazie alla tecnologia, in un mondo che permette di realizzare - quasi perfettamente e con relativamente poco costo e fatica - un’aspirazione antica almeno quanto la Grecia classica. Un’aspirazione che con l’Illuminismo diventa diritto, diritto che, incastonato nelle costituzioni moderne, diventa quindi un pilastro delle nostre democrazie. Parlo della libertà di parola (e del suo diritto gemello, la libertà di informazione).
E’con la nascita del web, infatti, che diventa relativamente facile ed economico fare qualcosa che fino a quel momento aveva richiesto o grandi capitali o la possibilità – ardua – di trovare spazio nei mass media, cioè, far arrivare il proprio messaggio, qualunque esso sia, potenzialmente a chiunque. Il web, infatti, fin dalla nascita, a inizio anni 90, si presenta come un medium «leggi-scrivi», ovvero, bi-direzionale, che rende facile non solo consumare contenuti, ma anche produrne e condividerli potenzialmente con chiunque abbia accesso a Internet (1.8 miliardi di persone secondo le statistiche più recenti). Condivisione che con gli anni è diventata sempre più facile e intuitiva, grazie a innovazioni come i blog (commentari con gli interventi presentati in ordine cronologico inverso, ovvero i più recenti in cima - 130 milioni secondo i dati più recenti), i wiki (pagine web facilmente modificabili da chi le legge, come quelle dell’enciclopedia online Wikipedia) e le grandi piattaforme di aggregazione come YouTube o Vimeo per i video, Flickr per le fotografie e le reti sociali, che pubblicano ogni mese (anche se in genere a un pubblico ristretto ai loro utenti), miliardi di testi, foto e video.
Gli utenti della Rete hanno accolto entusiasticamente questa opportunità di esprimersi. A seconda, infatti, dei sondaggi (per esempio, quelli di Pew Research), dal 40 al 60% degli internauti pubblica contenuti di varia natura. Contenuti ovviamente molto eterogenei tra loro, ma ciascuno realizzazione tangibile di quell’antica aspirazione, ovvero, permettere a ciascun individuo di presentare il proprio punto di vista. Punto di vista che non raramente contribuisce al pubblico dibattito in vista di una deliberazione, realizzando quella che i greci chiamavano isegoria - il diritto di prendere la parola su questioni di interesse generale. Dire, quindi, che Internet rappresenta il più straordinario e ampio spazio pubblico della storia è semplicemente ricordare un dato di fatto. Tra l’altro uno spazio pubblico molto discreto, che non invade le case o le strade, che non ci assorda le orecchie e non ci occupa la visuale, se non quando noi, liberamente, scegliamo di consultarlo online.
Eppure, singolarmente, diversi politici italiani, anziché concentrare le loro energie su come estendere l'esercizio di questa libertà a tutti i cittadini (il «digital divide» italiano, infatti, riguarda ancora oltre metà della popolazione), o su come più efficacemente educare la popolazione ad un uso maturo e consapevole della Rete (non si impara, infatti, in un giorno a guidare una Ferrari se si è sempre solo andati in bicicletta), da circa due anni sembrano cercare il modo di rendere l’espressione del proprio pensiero online più difficile e gravosa. Dopo diversi tentativi, forse ci stanno finalmente per riuscire. Il comma 29 dell’articolo 1 del decreto sulle intercettazioni in discussione in questi giorni alla Camera, infatti, estende - nella sua forma attuale - a tutti i gestori di siti informatici l’obbligo di rettifica previsto dalla legge sulla stampa: qualora non si dia seguito entro 48 ore ad una richiesta di rettifica, si è soggetti a una sanzione fino a 12 mila e 500 euro. Indipendentemente dal fatto che dietro al sito ci sia una struttura professionale o un semplice individuo, ovvero, che si tratti del sito, per esempio, de «La Stampa» o del blog della signora Maria Rossi, del sito di una grande azienda o di quello di una scuola elementare.
La proposta è infondata nelle motivazioni e potenzialmente molto nociva negli effetti. La motivazione è che Internet non deve essere, secondo i proponenti, un territorio senza legge dove ognuno dice quello che vuole. Tuttavia, dire quello che si vuole è un diritto costituzionalmente garantito, anche se, come è ovvio, nei limiti previsti dalla legge (diffamazione, calunnia, eccetera). E la legge vale online esattamente come altrove – da sempre.
In merito agli effetti, l’eventuale approvazione di questa norma avrebbe un grave effetto sulla libertà di espressione e di informazione, dal momento che scoraggerebbe moltissime persone, aziende e istituzioni dall’esprimersi online. Quante persone, infatti - o anche piccole aziende, associazioni, scuole, università, eccetera - se la sentirebbero di correre il rischio di pubblicare qualcosa non potendo garantire, 356 giorni all’anno, di riuscire a intervenire tempestivamente in caso di richiesta di rettifica? E anche quei rari individui che se la sentissero di garantire una così assidua presenza alla tastiera, come potrebbero discriminare con efficacia tra le richieste di rettifica fondate e quelle infondate, se non addirittura apertamente censorie? I giornali hanno uffici legali abituati a vagliare questo tipo di richieste; un generico blogger certamente no. Non è, quindi, difficile ipotizzare che, nel dubbio, le richieste di rettifica verrebbero sempre accolte – con un grave impoverimento della libertà di parola e di informazione online del nostro Paese.
È, quindi, davvero singolare quanto sta accadendo in Parlamento. Oppure no, non lo è affatto. Il web ha, infatti, radicalmente decentralizzato la produzione di messaggi, col risultato che il controllo sulle informazioni che giungono ai cittadini si sta indebolendo ogni giorno di più. Ciò per alcuni è evidentemente un problema. Per tutti gli altri, però, è una conquista da migliorare ed estendere.
*docente del Politecnico di Torino
La proposta è infondata nelle motivazioni e potenzialmente molto nociva negli effetti. La motivazione è che Internet non deve essere, secondo i proponenti, un territorio senza legge dove ognuno dice quello che vuole. Tuttavia, dire quello che si vuole è un diritto costituzionalmente garantito, anche se, come è ovvio, nei limiti previsti dalla legge (diffamazione, calunnia, eccetera). E la legge vale online esattamente come altrove – da sempre.
In merito agli effetti, l’eventuale approvazione di questa norma avrebbe un grave effetto sulla libertà di espressione e di informazione, dal momento che scoraggerebbe moltissime persone, aziende e istituzioni dall’esprimersi online. Quante persone, infatti - o anche piccole aziende, associazioni, scuole, università, eccetera - se la sentirebbero di correre il rischio di pubblicare qualcosa non potendo garantire, 356 giorni all’anno, di riuscire a intervenire tempestivamente in caso di richiesta di rettifica? E anche quei rari individui che se la sentissero di garantire una così assidua presenza alla tastiera, come potrebbero discriminare con efficacia tra le richieste di rettifica fondate e quelle infondate, se non addirittura apertamente censorie? I giornali hanno uffici legali abituati a vagliare questo tipo di richieste; un generico blogger certamente no. Non è, quindi, difficile ipotizzare che, nel dubbio, le richieste di rettifica verrebbero sempre accolte – con un grave impoverimento della libertà di parola e di informazione online del nostro Paese.
È, quindi, davvero singolare quanto sta accadendo in Parlamento. Oppure no, non lo è affatto. Il web ha, infatti, radicalmente decentralizzato la produzione di messaggi, col risultato che il controllo sulle informazioni che giungono ai cittadini si sta indebolendo ogni giorno di più. Ciò per alcuni è evidentemente un problema. Per tutti gli altri, però, è una conquista da migliorare ed estendere.
*docente del Politecnico di Torino