La Decollazione del Battista (1607-8), opera realizzata a Malta, sicuramente costituisce un'importante chiave ermeneutica per la comprensione non solo dell'ultima produzione pittorica del Caravaggio ma anche dei suoi dipinti giovanili.
La decollazione del Battista, come si sa, è la più grande tela che Caravaggio abbia mai dipinto. In tale opera è la vastità dello spazio architettonico con le sue forme circolari e orizzontali che domina la scena, la quale sembra svolgersi in un ideale palcoscenico di quel teatro della crudeltà immaginato e realizzato da Antonin Artaud solo alcuni secoli dopo.
In tale palcoscenico lo sfondo è costituito dalle alte mura esterne di un carcere. La scena madre si svolge per l'appunto innanzi al suo portone d'ingresso. Al suolo giace stramazzato il corpo del Battista. Il carnefice piegato su di lui gli tiene la testa ferma con la mano destra mentre con un coltello impugnato nella sinistra, tenuta dietro la schiena, si prepara a staccargli di netto la testa. La giovane Salomé si china premurosa verso il carnefice porgendogli un canestro di vimini. Il carceriere con le chiavi alla cintura e lo sguardo fisso per terra punta l'indice della sinistra in direzione del canestro nell'atto di ordinare la fase finale della decollazione del santo e la destinazione della sua testa.
In tale palcoscenico lo sfondo è costituito dalle alte mura esterne di un carcere. La scena madre si svolge per l'appunto innanzi al suo portone d'ingresso. Al suolo giace stramazzato il corpo del Battista. Il carnefice piegato su di lui gli tiene la testa ferma con la mano destra mentre con un coltello impugnato nella sinistra, tenuta dietro la schiena, si prepara a staccargli di netto la testa. La giovane Salomé si china premurosa verso il carnefice porgendogli un canestro di vimini. Il carceriere con le chiavi alla cintura e lo sguardo fisso per terra punta l'indice della sinistra in direzione del canestro nell'atto di ordinare la fase finale della decollazione del santo e la destinazione della sua testa.
Un'anziana domestica della giovane principessa in preda all'orrore innanzi alla scena di macelleria, che le si presenta innanzi, con le sue mani sorregge il capo in procinto di vacillare. La sua è l'unica reazione di sgomento innanzi alla spietata crudeltà dell'esecuzione. Due detenuti, infine, si sporgono curiosi da dietro le grate del carcere per assistere alla scena della decollazione. Tra tutti questi personaggi del dramma non c'è però un solo scambio di sguardi. Tutti gli occhi sono puntati per terra, al suolo, dove giace abbattuta la vittima il cui volto esprime un'indicibile sofferenza. Il sangue che fuoriesce dal collo semitroncato del santo, forma al centro e quasi sull'orlo della base del quadro un grumo di liquido rossastro. Da questa pozza di sangue sembra attingere Caravaggio per firmare la sua grande opera.
La firma notata da qualcuno solo agli inizi del 1900 (2), venne tuttavia scoperta durante le operazioni di restauro della tela nel 1955-6. Tale firma, ridotta al solo nome di battesimo, strana, inquietante è forse l'indizio di un segreto, di un patto iniziatico e misterioso, inerente all'ammissione all'ordine Gerosolimitano dal momento che tale ordine, quello dei Cavalieri di Malta, aveva un culto particolare proprio per il Battista.
Questa firma tuttavia mostra ancora qualcosa di molto compromettente, che solo un patto di sangue poteva suggellare. Di questa firma ancora assai singolare quel che oggi è leggibile si riduce solo a sette lettere, che formano il nome michelA preceduto da un segno che è stato interpretato comunemente come una 'f'. Secondo tale interpretazione la lettera 'f' starebbe per "fecit" o per "frater". Il nome michelA sarebbe poi seguito da uno o più caratteri abrasi ed indecifrabili.
Per tornare alla scena del quadro bene ha detto qualcuno che essa inaugura quella della tragedia moderna. Nell'oscurità non solo fisica, palpabile ma anche simbolica delle mura del carcere la sola luce che cade forte, spiovente in baso, alla base del dipinto, è quella che illumina le parti superiori dei corpi seminudi del carceriere e della vittima. Questa luce che illumina dunque in maniera crudele la scena della decollazione del Battista sembra pertanto avere un suo significato metafisico che di certo non può essere ricercato nell'intervento della grazia divina. E tuttavia dal netto contrasto tra l'oscurità del carcere e la luce esterna ad esso, che illumina l'orribile esecuzione del carnefice ci si rende cono che questa luminosità (delle prime ore dell'alba?) è da preferire al buio profondo in cui sono immersi i due carcerati che osservano da dietro le grate. Questa luce simbolica, esterna ad una prigione oscura tuttavia non è la luce della salvezza bensì quella invece di un piano sovrannaturale, che pur illuminando l'oscurità della materia non esclude bensì comprende la dualità, ossia il male che opera e regna su questo mondo, nel quale tutti siamo imprigionati e dal quale siamo distaccati in maniera violenta, traumatica dalla morte per ordine, volontà del Demiurgo ossia del carceriere della nostra anima.
È questa la verità occulta, la gnosi segreta che si cela nel grande quadro della decollazione del Battista, un'opera firmata – non si dimentichi – col colore del sangue e con un nome michelA, le cui lettere nel computo cabalistico danno come somma il numero 22, cifra emblematica in senso positivo di una personalità superlativa ed in senso negativo del Maestro delle Arti Nere. (3)
È questa la verità occulta, la gnosi segreta che si cela nel grande quadro della decollazione del Battista, un'opera firmata – non si dimentichi – col colore del sangue e con un nome michelA, le cui lettere nel computo cabalistico danno come somma il numero 22, cifra emblematica in senso positivo di una personalità superlativa ed in senso negativo del Maestro delle Arti Nere. (3)
Di queste arti proprio il quadro in esame è un saggio nel quale è possibile riscontrare precise corrispondenze numeriche tra i diversi lati e piani simbolici rappresentati nella composizione pittorica.
Di fatti a un piano della materia, rappresentato sul lato destro del dipinto dal numero 2 (i due prigionieri del carcere oscuro), corrisponde il piano di un mondo celeste rappresentato dal 5 composto da numeri pari e dispari (le due figure femminili + le tre figure maschili).
Questo piano mercuriale in quanto partecipa delle due nature ha il suo centro nell'unico asse verticale del quadro, rappresentato dal carceriere, che dirige l'azione drammatica su cui sono puntati tutti gli sguardi. È lui infatti che ordina l'esecuzione mentre tutti sembrano piegarsi alla sua volontà. L'opera pittorica nella rappresentazione propria di un impianto teatrale rivela dunque una regia dietro la regia ma anche aspetti inquietanti di una "doppia vista", di una premonizione avuta dall'artista relativa al suo imprigionamento nello stesso carcere dipinto (4) nonché alla sua evasione per mezzo di due corde calate dalle alte mura della prigione.
Nel dipinto squilla pertanto una sorta di campanello di allarme per la vita in pericolo del pittore. È in verità in vista di questo allarme che bisogna prestare attenzione per comprendere quell'unica firma che Caravaggio ha posto solo sul suo dipinto più grande.
A questo punto è tuttavia lecito domandarsi se la sottolineatura dell'inversione del nome dell'artista declinato al femminile è solo una firma o qualcosa d'altro. A riguardo si potrebbe pensare infatti che con tale firma Caravaggio abbia inteso proiettare o meglio palesare la sua anima e l'ombra (5) in essa contenuta ossia la parte più oscura della sua personalità.
Nel rigore della composizione pittorica caratterizzata dalla rappresentazione di un palcoscenico dal solido impianto architettonico in cui si svolge un'azione drammatica bilanciata da precise corrispondenze numeriche una tale firma sembrerebbe costituire il solo dato impulsivo proprio di un'emotività che tradisce la sua natura ossessiva o peggio possessiva.
Di questa "possessione", che, in una sorta di psicosi può aver assunto la forma schizoide di una diabolica percezione interna, Caravaggio, in preda ormai alla paura, allo spavento pare abbia avuto una conoscenza piena seppure deformata dal terrore. (6)
L'alterazione della sua coscienza con un conseguente abbassamento di livello, sempre che ci sia stata, si deve a questo stato di panico. Da qui l'insorgere nell'artista della premonizione, ossia di un fenomeno sincronico acausale, che lo avrebbe spinto a lasciare una traccia, nel suo dipinto, dell'imminente pericolo mortale.
Tale traccia camuffata da una firma non sarebbe altro che un certificato di morte: il suo.
Caravaggio, a nostro avviso, contro tutto quanto si è sostenuto sin'ora a riguardo, in realtà non firma un quadro bensì una lapide facendo in essa precedere il suo nome da un semplice segno di croce. È possibile allora leggere questo segno accanto al nome alterato di battesimo non solo come un segnale per la vita incerta, in pericolo dell'artista bensì anche come contrassegno dello stato, per così dire, mortale della sua anima. (7)
L'identificazione di Caravaggio con il santo che nella scena del quadro sta per essere decollato, ai nostri occhi, assume allora un significato più profondo di quello che comunemente si attribuisce col prendere solo in considerazione il fatto che sulla vita dell'artista pendeva un bando capitale (9), giacché diversi indizi ricavati, come meglio vedremo, dall'esame in particolare delle sue ultime opere, ci fanno sospettare che il maestro lombardo, forse anche per proteggersi in seguito all'omicidio di Ranuccio Tommasoni, avesse finito per contrarre una sorta di patto diabolico, scommettendo, come si suole dire, la testa con il diavolo e firmando pertanto la sua condanna a morte per l'eternità.
Che Caravaggio del resto bazzicasse con le scienze occulte lo apprendiamo direttamente dalla testimonianza delle sue opere. A queste scienze l'artista infatti dovette essere iniziato dal Cardinal del Monte, per il quale affrescò ad olio il soffitto del suo gabinetto alchemico. Lo stesso Cardinale di certo dovette notare nell'artista una sorta di predisposizione per l'occulto in seguito alla realizzazione di questi in casa di Monsignor Petrignani del dipinto La Buona Ventura, di cui per altro si preoccupò di commissionare una copia.
È soprattutto in un'altra opera, pure commissionata dallo stesso Cardinale, San Francesco riceve le stimmate, che Caravaggio dovendo occuparsi di un soggetto mistico finisce per rappresentare quest'ultima in chiave esoterica, realizzando pittoricamente la materializzazione medianica di un'intensa estasi visionaria.
In in quest'opera infatti sul lato davvero sinistro del quadro si cela nell'oscurità una piccola figura di un frate seduto, rannicchiato ai piedi di un albero ed in atteggiamento malinconico. (8) È innanzi a questa piccola figura in ombra, che sullo sfondo d'acchito non si nota neppure, che si materializza una sorta di croce di luce, formata dal corpo del santo steso in diagonale e dall'angelo che lo sorregge.
Il piccolo frate melanconico, affrancato dai sensi, tutto racchiuso su se stesso nella contrazione della sua figura rimpicciolita da questo ripiegamento sul suo mondo interiore che sembra alienarlo dalla realtà esterna, materiale, visibile, pur trovandosi in uno stato di passività e depressione, è preso da un'intensa estasi visionaria, ispirata non soltanto da Saturno, in quanto potente demone astrale, ma anche dall'angelo di Saturno, uno spirito androgino dalle ali possenti simili a quelle del tempo, che gli appare in una proiezione esterna nell'atteggiamento di sollevare da terra il busto e la testa del santo in deliquio.
Sempre sullo sfondo del quadro si notano strani e misteriosi bagliori, che sembrano schiarire, dileguarsi nell'aria circostante ed in lontananza nell'oscurità. Bagliori forse questi che non sono altro che resti ectoplasmatici, luminosi della materia fluidica che ha materializzato la visione, la cui fonte energetica più vicina non può non essere individuata nella piccola figura del frate assiso e quasi nascosto nell'ombra ai piedi dell'albero.
Da questa prospettiva d'indagine il vero soggetto del quadro è dunque la malinconia ispirata, che presa da un'intensa estasi visionaria (9), è capace anche di proiettare per l'appunto fuori di sé la sua visione mistica.
In due successivi dipinti dedicati ancora a San Francesco Caravaggio nell'esecuzione di una doppia versione, l'una proveniente dalla chiesa di San Pietro di Carpineto Romano, l'altra dalla chiesa di S. Maria della Concezione di Roma, sembra essere risalito ad una antica tradizione inaugurata, a quanto pare, da Giotto. Secondo Cecco d'Ascoli (10) infatti, Giotto avrebbe pure dipinto due uguali rappresentazioni di uno stesso santo, eseguite tuttavia in ore diverse del giorno ossia sotto una diversa configurazione astrologica, allo scopo di far confluire in esse una diversa virtù o influenza celeste.Nell'esaminare pertanto il soggetto della duplice versione, San Francesco in orazione, non possiamo non considerare il fatto che nel quadro di un rinnovamento spirituale rappresentato dal movimento francescano l'alchimia non poteva non costituire in esso un interesse di certo non irrilevante. (11)
Questo interesse è quel che Caravaggio artisticamente cerca di mettere a fuoco nei due dipinti sopraddetti.
Nella rappresentazione dunque del santo che in ginocchio contempla un teschio tenuto tra le mani non ci sfuggono infatti altri elementi particolarmente significativi, che partendo dal basso verso l'alto della composizione pittorica, così possiamo distinguere: 1° un sasso cavo al suo interno, poggiato per terra ed immerso nell'oscurità; 2° una croce poggiata sul sasso; 3° un teschio tenuto in mano dal santo, che costituisce l'oggetto più luminoso del quadro in entrambe le versioni dipinte.
Dal nostro esame risulta pertanto che l'occiput, il teschio nella mani del santo, situato ad un livello più elevato della materia grezza (la pietra cava al suo interno ed ancora oscura) non solo costituisce il vero vaso filosofico, in cui avviene l'operazione di trasmutazione alchemica, ma va identificato anche con la pietra filosofale, fonte di ogni magica visione ed illuminazione, quasi fosse per l'appunto una sfera di cristallo.
Solo in quanto spogliata dalla sua pesantezza e "terrestrità" per mezzo della croce (simbolo della quinta essenza) questa sfera ossea, cava al suo interno, può venir simbolicamente sollevata da terra per divenire oggetto speculare di contemplazione spirituale.
In un altro bellissimo dipinto, proveniente dal Museo Civico di Cremona, il San Francesco in meditazione, il santo è ritratto in ginocchio con la testa reclinata a sinistra nell'atto di volgere in basso il suo sguardo a tre oggetti della sua meditazione: il crocifisso, un libro tenuto aperto dalle braccia di una croce, un teschio su cui poggia la parte sinistra del volume.
La contiguità dei tre oggetti è sicuramente il dato più emblematico del dipinto. Su di essa di fatti si concentra l'attenzione del santo e la nostra. In tale contiguità è il Cristo-Lapis (12), che spalanca le pagine bianche e nere del sapere alchemico, il quale a sua volta trova una base d'appoggio sul vaso filosofico ossia sul teschio.
In questa nostra particolare osservazione la figura del santo meditabondo che volge il suo sguardo verso il basso, verso la materia della conoscenza , ci sorprende davvero. Lo sguardo del suo viso è infatti triste, pensoso. In tale meditabonda malinconia la sua ampia fronte ci appare poi increspata dalle rughe. Su tutto il suo corpo infine vestito di un ampio saio sdrucito sulle maniche, che lascia scoperto solo il capo e le mani intrecciate, serpeggiano tra le pieghe della veste e i tratti dell'incarnato le stesse luci ed ombre di quel libro aperto, le cui pagine luminose ed oscure costituiscono forse le diverse fasi dell'operazione alchemica o, se si vuole, i diversi aspetti, lati, piani di un sapere ermetico, avvolto nel mistero.
E' dunque sullo sfondo oscuro di un tale sapere o di una filosofia occulta (16), che occorre situare l'opera in particolare dell'ultimo Caravaggio se di questa si vogliono davvero intravedere gli aspetti magici, esoterici, sorprendenti, di cui abbiamo in parte parlato esaminando, ad esempio, il dipinto Il sacrificio di Isacco, realizzato, come si ricorderà in una doppia versione, una all'alba, l'altra al tramonto e che ancora cercheremo di scoprire parlando della Resurrezione di Lazzaro.
In questo grande dipinto ci aveva anzitutto colpito il volto oscuro di Cristo e lo sguardo di alcuni personaggi in esso raffigurati, che si voltano a guardare qualcuno o qualcosa che opera accanto o dietro di Lui.
Davvero impressionante poi ci sembrava la mano aperta ed alzata di Lazzaro, che dal regno dell'oltretomba sembra reagire al comando negromantico di Gesù. Nella conta dei personaggi del quadro in questione ancora avevamo scoperto, non senza qualche difficoltà, che essi sono tredici, numero questo fatidico e a ben guardare per nulla strano nel contesto del dipinto.
Il numero 13 infatti rappresenta una rottura di livello, un cambiamento di stato ontologico, un elevamento ad un piano superiore. Nei tarocchi, ad esempio, la tredicesima carta è la Morte, che nel senso suddetto può significare una rinascita spirituale, un passaggio ad un nuovo e superiore stato ontologico, una resurrezione.
Da un testo gnostico ritrovato recentemente, Il vangelo di Giuda (13), apprendiamo inoltre che il 13 è il contrassegno del "traditore", ossia la cifra di Giuda. Per comprendere tuttavia il significato di questa cifra, che si eleva al di sopra del 12, bisogna partire da una concezione gnostica dell'origine del mondo esposta in tale vangelo. Secondo tale concezione il vero Dio trascendente avrebbe posto 12 angeli a governare il mondo. Di questi governatori i dodici apostoli di Gesù non sarebbero altro che il loro riflesso terreno. (14)
Nel designare Giuda come il tredicesimo spirito, Cristo vuole dirci dunque che il "traditore" è al di là o al di fuori del club, del gruppo o meglio del circolo dei dodici. In tal senso il 13 segnala una realtà altra rispetto a quella terrena governata dagli arconti.
Questa realtà altra dalla materia, dal mondo, questa realtà non fenomenica al di là delle dimensioni spazio-temporali ossia al di là del circolo dello zodiaco o dell'universo in quel tempo conosciuto, è quella del Grande Spirito Invisibile. (15)
A scanso di equivoci bisogna qui dire che il nostro artista di certo non ha nulla a che vedere con il Vangelo di Giuda, ritrovato del resto nel 1970 in Egitto.
A Caravaggio tuttavia, che, come in parte abbiamo visto, era anche un cultore delle scienze occulte, non poteva sfuggire però la concezione cosmologica espressa chiaramente in quel vangelo in quanto tramite lo gnosticismo probabilmente quest'ultima era stata veicolata nell'alveo di quel fiume tutt'oggi carsico, rappresentato dalla cultura esoterica.
Quello del maestro lombardo fu sicuramente allora il primo esperimento in pittura di Op Art (16) mai tentato prima nella storia dell'arte. Nel descrivere tale fenomeno dobbiamo tuttavia tornare alla scena enigmatica del quadro, dove almeno tre dei personaggi rappresentati, di cui due necrofori, si voltano indietro verso sinistra a guardare qualcosa o qualcuno accanto o dietro quel Cristo, il cui volto oscuro non può non incuriosirci.
Perché infatti - non possiamo fare a meno di domandarci – nell'operare un miracolo o un incantesimo negromantico Gesù si trova o meglio viene rappresentato da Caravaggio in ombra? Qual è il significato recondito di quest'ombra?
Che Gesù sia una reincarnazione di un "dio nero", di Osiride (17) è solo una idea suggestiva che viene in mente pensando al comune destino di morte e resurrezione delle due divinità.
In questa oscurità del volto di Cristo c'è però dell'altro che ci spinge ad indagare in un terreno culturale non così lontano nello spazio e nel tempo quale il mitico Egitto bensì in un territorio contiguo quale quello rinascimentale in cui venne realizzata da Dürer la famosa incisione della Melanconia I.
Se non ricordiamo male anche il volto della Melanconia raffigurata da Dürer, assorta in un'intensa estasi visionaria, è rabbuiato da un'ombra oscura senza che mai si sia riusciti a spiegarne a fondo la ragione, quel significato, che sicuramente va cercato al di là di uno stato temporaneo di depressione o di umore nero.
Nel De umbris idearum di Giordano Bruno pensiamo pertanto di aver trovato qualcosa che possa fornirci la soluzione del mistero. L'ombra di cui discorre Bruno non è ovviamente quella in cui si crede che dorma il Leviatano, bensì quella "che conduce alla luce e che, per quanto non sia verità, discende tuttavia dalla verità e si protende verso la verità". Questa infatti è l'ombra che racchiude "il celarsi del vero" e "a cui alludono i cabalisti, poiché il velo che secondo tipo e figurazione era posto sul volto di Mosé - e che figurativamente adombrava il volto della legge - non doveva ingannare l'occhio degli uomini”. (18)
Secondo una tale concezione dell'ombra di derivazione neoplatonica il volto oscuro di Cristo nella Resurrezione di Lazzaro e il volto rabbuiato della Melanconia I del Dürer non avrebbero allora altro significato se non quello di non spegnere bensì custodire e conservare quella luce metafisica che solo ci è data da osservare, nella nostra condizione assai limitata di esseri mortali, solo in tale stato di velamento e di oscurità.
In parole povere ed in altri termini dell'opera prodigiosa di Cristo e dell'estatica contemplazione della Melanconia I noi possiamo osservare nell'espressione del loro volto oscuro non tutta la potenza della loro arte magica e/o negromantica che finirebbe per abbagliarci e renderci ciechi bensì quel tanto che può sopportare la nostra vista assai limitata. Quell'ombra essendo costituita dalla produzione di energia magnetica dovuta alla densità, alla condensazione, all'ispessimento della materia pensante, che sola può verificarsi in una straordinaria concentrazione mentale.
Una tale ipotesi interpretativa tuttavia per quanto verosimile non esclude il fatto che nella Resurrezione di Lazzaro noi assistiamo, come in una sorta di deliquium solis, ad una sorte di eclisse costituito dall'oscuramento del volto del Cristo causato dalla presenza di una figura "invisibile" che gli sta dietro. È in questa figura che abbiamo trovato il tredicesimo personaggio del quadro appartenente ad un'altra realtà dell'essere. Un personaggio il cui solo volto rispetto a quello di tutti gli altri personaggi è ritratto da Caravaggio in tinte assai sfumate e cangianti ad una maggiore o minore sovraesposizione della luce che fa sì che esso appaia nel primo caso senza alcuna difficoltà allo sguardo dello spettatore come per l'appunto in una riproduzione fotografica mentre nel secondo può celarsi anche ad uno sguardo acuto ed attento. Questo è l'effetto ottico che Caravaggio introduce in maniera del tutto singolare nella storia della pittura e sul quale non ci risulta che si sia mai indagato da parte anche dei maggiori esperti in materia.
Ma chi è questo tredicesimo personaggio? Chi rappresenta? Come abbiamo fatto ad individuarlo?
A queste domande cercheremo di rispondere nella maniera più semplice per mezzo della semplice osservazione. Al nostro sguardo infatti questo tredicesimo personaggio appare come un vecchio dal volto rugoso che si trova proprio accanto a Cristo, ma situato dietro di Lui, venendo così a costituire, contando a partire dal lato sinistro del quadro, la quarta figura dipinta della composizione del quadro. Se il quattro tuttavia non è nel computo cabalistico che la somma del 13 ossia di 1+ 3 e se il numero tredici indica, come abbiamo detto un passaggio ad un nuovo e superiore stato ontologico, questa figura di vegliardo non può non avere a che fare con il Grande Spirito Invisibile. L'aggettivo grande infatti deve essere inteso come in francese ad esempio nel termine grand-pére (nonno) nel senso per l'appunto di anziano. L'Anziano infatti di cui qui parliamo non è altro che Dio, il biblico vegliardo di cui parla Daniele (Dn, 7,9; 7,13; 7,22;).
È all'epifania di questo Dio biblico o di questo tredicesimo spirito (δαίμον) che guardano in particolare i due necrofori che spalancano la botola di una tomba sotterranea ed un terzo personaggio alle spalle dei due, rappresentato nel quadro? Perché mai proprio i necrofori tra tutti gli altri personaggi del dipinto guarderebbero all'epifania del Grande Spirito invisibile? Quale strana connessione, corrispondenza c'è tra questa manifestazione di ordine sovrannaturale e l'abisso a cui essi sono prossimi spalancandolo? Cosa hanno visto quest'ultimi personaggi in fondo all'abisso, che li spingerebbe in maniera repentina a voltarsi indietro ?
A queste domande preferiamo non rispondere, limitandoci a dire solo che la Resurrezione di Lazzaro è un'opera febbricitante con quella croce di luce rappresentata solo da un cadavere, quello di Lazzaro, ed un'oscurità sepolcrale che sembra poi condensarsi in maniera particolare sul volto ombroso di Cristo. Un'oscurità questa che non trova pertanto una completa e soddisfacente soluzione rimanendo per noi il grande dipinto messinese una delle opere più inquietanti ed enigmatiche di quell'ultimo Caravaggio, che più volte - ci sembra - durante la sua vita aveva letteralmente perso la testa scommettendola forse con il Diavolo.
Quella stessa testa, staccata dal tronco, che il maestro lombardo rappresentò in un altri celebri dipinti del suo Davide e Golia in diverse versioni, la prima delle quali è quella del museo del Prado (1596-/7) e l'ultima la più virulenta è quella (1609) della Galleria Borghese, raffigurante un suo drammatico autoritratto, esibito per prima da lui stesso con un sentimento di orrore e raccapriccio.
Note
1) Si legga a riguardo L'inquietudine del Caravaggio in Il Settimanale di Bagheria n° 277 del 6 gennaio 2008
2) "V. Saccà (1906-1907), individuata nel sangue del Battista la firma del Caravaggio, ne proporrebbe l'autoritratto nella testa del santo". Citazione tratta dal catalogo della mostra "Caravaggio .L'immagine del divino". Ediz. RomArtificio, Roma, 2007 a pag. 253.
3) La lettura del numero 22 che noi abbiamo preferito dare è tratta dal libro La Magia Nera di Richard Cavendish, ediz. Mediterranee, Roma, 1972
4) È assai strano che del reato per il quale Caravaggio fu imprigionato nelle carceri di Malta non si trovi alcun documento presso l'archivio dell'Ordine di Malta, custodito presso la Biblioteca di La Valletta. Due documenti riguardanti il primo un procedimento per l'espulsione dell'artista dall'Ordine di Malta (20 novembre 1608) che si conclude con la sua effettiva espulsione dall'Ordine (1 dicembre 1608) ed un secondo riguardante un incarico affidato dal Gran Maestro dell'Ordine a due confratelli per la ricerca del Merisi in seguito alla sua fuga si trovano nel Liber Conciliorum Vol 103, c. 32, c. 33-34 e c. 13 verso dell' Archivio dell'Ordine di Malta, Biblioteca di La Valletta.
5) Per una disanima esaustiva del concetto di anima e di ombra rinviamo il lettore alle pagine di Jung in "L'Ombra" e in "la sizigia: Anima e Animus". Tali Pagine sono contenute nel volume Aion. Ricerche sul simbolismo del Sé, ediz. Bollati Boringhieri, Torino 1997.
6) Della paura di Caravaggio durante il suo ultimo periodo della sua vita abbiamo già parlato nel nostro precedente articolo L'inquietudine del Caravaggio, citando come fonte "La vita de' pittori messinesi" di Francesco Susinno
7) F. Susino sempre nel suo libro "La vita de' pittori messinesi" riferisce il seguente episodio relativo alla "vita trasgressiva" del Caravaggio: "Avendosi ad dunque il nostro dipintore acquistato una gra fama, guadagnansi altresì molti quattrini che dissipava in valenterie ed in bagordi; faceva il rompicollo ed il contenzioso, e quel ch'è peggio, mostravasi poco pio. Un giorno entrato con certi galantuomini nella chiesa della Madonna del Piloro, fattosi infra questi innanzi il più civile per apprestargli acqua benedetta, egli domandatogli a ciò servisse, glifu risposto per cancellare i peccati veniali: Non occorre! Dissegli, perché i miei sono tutti mortali. L'aver voluto altresì fuor della sua professione andar questionando le cose della nostra sacrosanta religione, gli dà taccia di miscredente, quando che gli stessi Gentili hanno mostrato una gran modestia ne' misteri di essa."
8) Nella figura del frate in ombra si è cercato comunemente di individuare fra' Leone. Tale individuazione ci sembra alquanto discutibile giacché nel dipinto tale figura è immersa completamente nell'ombra tanto da passare d'acchito inosservata. Sfugge invece ai critici il rapporto tra l'atteggiamento assorto, pensoso del piccolo frate e quel che in primo piano inequivocabilmente l'artista ha voluto dipingere come il contenuto di una visione mistica.
9) Secondo il vocabolario di lingua italiana, compilato da Nicola Zingarelli, l'estasi dal greco έκστασις indica l'escesso (l'uscita), l'essere fuori di sé. Quel che osserviamo in primo piano nel quadro in questione e che non può essere scambiato come una rappresentazione della realtà è per l'appunto una proiezione esterna o meglio estatica della mente del piccolo frate celato nel buio.
10) "... due figure d'un beato santo:/d'ugual bellezza presso al viso nostro / fatte per Giotto, dico, in diverse hore..." I sopraddetti versi si trovano nell'Acerba, un componimento poetico di Cecco d'Ascoli, poeta occultista medievale. Vedasi il libro di Anna Maria Partini e Vincenzo Nestler "Cecco d'Ascoli", ediz. Mediterranee, Roma, 2006 a pag. 48.
11) A riguardo si legga il capitolo decimo di Storia e segreti dell'alchimia di Paolo Cortesi, ediz. Newton&Compton, Roma, 2002. Ricordiamo qui brevemente che alchimisti furono i francescani Frate Elia da Cortona, Bonaventura D'Iseo, Giovanni da Rupescissa, Arnaldo da Villanova, Ruggero Bacone e Raimondo Lullo.
12) Sul Cristo-Lapis rinviamo il lettore in particolare al capitolo quinto di Psicologia ed, Alchimia di Jung, intitolato per l'appunto "Il parallelo Lapis. Cristo", pag 333-413 in Opere di C.G. Jung, vol 12 , ed Bollati Boringhieri, Torino, 2001.
13) Sul ritrovamento del Vangelo di Giuda il libro più esauriente è quello di Heberty Krosney, Il Vangelo perduto, Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma , 2006.
14) "Il significato effettivo del numero dodici è che il vero Dio ha posto dodici angeli a governare il mondo inferiore, e dunque i dodici discepoli rappresentano sulla terra il numero del loro 'Dio' in cielo". Citazione da Il vangelo ritrovato di Giuda di Elaine Pagels- Karen L.King, ediz. Mondatori, Milano, 2007
15) Sul Grande Spirito Invisibile rinviamo ad un famoso testo gnostico Il vangelo degli Egiziani, titolo questo attribuito dal Doresse e che secondo un esperto in materia, quale Luigi Moraldi sarebbe stato meglio intitolare "Il sacro libro del Grande Spirito Invisibile", traendo tale denominazione dal suo colofon. Il vangelo degli Egiziani si trova in Testi gnostici a cura di Luigi Morali, ediz. UTET, Torino 1997.
16) La Op Art è stata dalla metà degli anni 50 fino al 60 una delle tendenze dell'arte contemporanea. Tale tendenza realizzò composizioni dove, ad esempio, lo spettatore otteneva spostandosi effetti visivi diversi. Il principio di "ambiguità gestaltica" su cui tali opere furono il più delle volte impostate consisteva nella possibilità di "doppia o multipla lettura" di uno stesso pattern visuale. Tale possibilità di una diversa e cangiante modalità percettiva in qualche modo insita nella struttura formale della composizione portò Umberto Eco a coniare per essa il termine di opera aperta.
17) "Nei templi d'Egitto, quando il candidato era sul punto di superare le prove d'iniziazione, un sacerdote gli si avvicinava e gli sussurrava all'orecchio questa frase misteriosa : Ricordati che Osiride è un dio nero!" Citazione tratta da Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, ediz. Mediterranea, Roma, 1972 a pag. 89
18) Citazioni da Giordano Bruno, De umbris idearum in Opere Mnemotecniche, ediz. Adelphi, Milano, 2004.
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