Luigi Bisignani, il custode dei segreti (dei potenti)


di Gianluigi Nuzzi

Anthony Lake, l’uomo ombra dell’allora presidente Bush ai vertici della National security agency a Washington chiedeva chi potesse incidere in Italia per dirimere questioni che coinvolgevano la sicurezza nazionale o commesse delicate come quelle di Finmeccanica. Luigi Bisignani poteva contare sulle giuste maniglie. Uno dei pochi italiani che si muove con agilità nel lobbismo americano e a Londra. E bisogna andare in quei paesi per apprezzare lo stampatore dell’Ilte, lobbista icona della trasversalità italica, capace di dividere il pomeriggio tra la fondazione di Massimo D’Alema a piazza Farnese e l’ufficio luminoso di Gianni Letta. Con discrezione e nicchiando ai complimenti quando tra i pochi pregi conosciuti o riconosciuti rimane soprattutto quello del suo rapporto con la cosa pubblica. Bisignani tiene a mente l’intera mappatura aggiornata della burocrazia italiana. Tutta a mente, gran parte la conosce, grandissima parte la influenza. A necessità secondo le tavole della politica che gli ha lasciato Giulio Andreotti.


LEGAMI IN VATICANO
Bisignani era amico e socio spregiudicato dell’impavido monsignore Donato de Bonis, prelato dello Ior. De Bonis custodiva il conto corrente del senatore a vita. E Bisignani annodava segreti. Uno tra tutti? Dopo aver riciclato proprio nei forzieri della banca del Papa la maxi tangente Enimont mai disse e mai seppe che una parte, qualche miliardo, di quella mazzetta era passata proprio dal conto di Andreotti. All’epoca una notizia simile avrebbe spedito Andreotti nella premiata officina di Mani Pulite. Invece, il presidente rimase fuori da Tangentopoli. Grazie, Gigi.

Per questo oggi la notizia dell’arresto, seppur lasciando amarezza nelle stanze della Segreteria di Stato, non provoca dolore in personaggi come monsignor Georg Gaenswein, il segretario particolare di Benedetto XVI che sostiene il pontefice allontanando le cricche e richiamando chi venne allontanato. Certo, Bisignani si immagina con quell’alone di potere e mistero che lo stesso ha coltivato rimanendo nell’ombra e che per fini mediatici, politici, strumentali insomma, alcuni hanno siliconato a dover d’occasione. Ma Bisignani è di certo potente. Almeno lo era fino a quando certi suoi referenti ottuagenari o quasi hanno iniziato a ritrovare per strada grattacapi ieri impensabili, come Cesare Geronzi. E non si pensi a Berlusconi, perché collocare Bisignani nella galassia del premier è fuorviante, un errore. Bisignani vive di suo in una galassia che supera governi, crisi di partiti, rimane indenne quando un leader cade nella polvere, si rafforza, persino e alla fine, quando lui stesso finisce in manette come accaduto agli inizi degli anni ’90 con Mani pulite con tanto di sentenza definitiva per corruzione. È una galassia in cui trionfa una delle leggi di Bisignani ovvero quella di essere sempre in credito con le persone. Sia per effettivi aiuti, raccomandazioni elargite e problemi risolti, sia lasciando credere di essere intervenuti quando non è vero.

Così amministratori delegati di rilevanti gruppi pubblici, politici, ministri, direttori di giornali, funzionari di rango dello Stato, magistrati, generali a cinque stelle, tutti hanno saputo contare sul regista sapiente, sul direttore di orchestra che sapeva accordare tra loro gli strumenti, lasciando tutti contenti. E quando non conosceva Bisignani era anche spavaldo, chiamava qualche giorno prima della nomina sul numero privato di casa, sul cellulare, faceva le congratulazioni, «ma ancora non è deciso», «lasci fare, si goda questi giorni e benvenuto». Facendo così da padrone nella casa del potere italiano, scontornava da subito un rapporto generoso che si sarebbe edificato giorno dopo giorno. Ora è diverso, su Bisignani da anni la magistratura tergiversa, gli amici si guardano attorno. E lui, che per il potere (e per una donna) è anche disposto a tornare a scrivere comunicati stampa come ai tempi dei Ferruzzi, non riesce più a garantire la successione a se stesso come quando negli anni Novanta e Duemila mutava pelle per tornare più forte di prima.

BERSAGLIO GROSSO
Infatti, l’intrepido John Henry Woodcock ha focalizzato da anni l’obiettivo sul lobbista, ancora a Potenza erano iniziate le manovre investigative di avvicinamento ma mai come oggi – si devono essere detti a Napoli - c’è l’occasione per fiocinare il potenziale indagato che sembrava destinato al purgatorio in eterno. E così per una splendida legge del contrappasso Woodcock ha raccolto segugi, cacciatori, investigatori & affini, dalla Guardia di Finanza al Nucleo operativo ecologico dei carabinieri di Roma. Cosa poi c’entrino i marescialli che guadano i fiumi alla ricerca di discariche illegali con questa inchiesta non è d’immediata comprensione. Bisogna recuperare il lettino e metterci su Woodcock. Ci ha abituati alla sua diffidenza siderale verso qualunque divisa forse convinto che i poteri tramino contro di lui. E così recupera investigatori di reparti non proprio di prima linea come quando mandò i vigili urbani di Potenza, poveretti, su al nord ad arrestare Vittorio Emanuele. Di certo quel reparto del Noe è comandato da Sergio De Caprio che da capitano Ultimo mise le manette a Totò Riina diventando leggenda. Come il comandante delle Fiamme Gialle di Napoli è lo stesso mastino che 15 anni fa condusse l’inchiesta sui rapporti tra Antonio Di Pietro, Giancarlo Gorrini e il costruttore Antonio D’Adamo, comandando i colleghi a Brescia. E ieri come oggi tutto si ripete: la caduta di uno provocherà o potrebbe provocare quella di tutti.