di Carlo De Nitti
Italo Calvino scriveva che classico è quell'autore e/o quel libro che non ha ancora finito di dirci ciò che ha da dirci: insomma, quei testi che – a distanza di anni, di decenni, di secoli, di millenni – parlano al nostro presente di uomini, di persone, di cittadini.
Nel 1972, Giuseppe Decollanz (1935 – 2012) – uomo di scuola, intellettuale, studioso di letteratura per l’infanzia e pedagogista engagé – pubblicò il volume Educazione e politica nel Pinocchio, qui recensito, oggi rieditato in occasione del settantottesimo anniversario della sua nascita per i tipi di rebus books.
Il volume Le avventure di Pinocchio venne pubblicato a Firenze nel 1883 da Carlo Lorenzini – più noto con lo pseudonimo di Collodi, il paesino toscano, vicino Pescia, di cui era originaria la madre – precedendo di pochi anni la stampa di Cuore (1886), di Edmondo De Amicis: sono essi i due capisaldi della letteratura per l’infanzia più rappresentativi – in modo radicalmente diverso – della pedagogia dell’Italia post risorgimentale, umbertina.
Il testo di Decollanz, articolato in un’ampia introduzione – divisa in due parti, l’una sull'epoca e sulla temperie culturale in cui Collodi visse e l’altra sulla sua vita -, in due capitoli (il primo di storia della critica ed il secondo su “Il Problema del Pinocchio”) ed in una conclusione non casualmente intitolata “La rivoluzione del Collodi”, rappresentò, a sua volta, un nuovo interessante capitolo di storia della critica del capolavoro collodiano.
Come non ricordare, tra i numerosi interventi critici discussi da Decollanz, le pagine che Benedetto Croce dedicò allo scrittore toscano, nell’ambito del suo La letteratura della nuova Italia, allorquando parla di lui come di chi ha “scoperto il valore dell’umanità di Pinocchio” (p. 64)? Ma anche, in tempi più recenti, la trasposizione televisiva che ne realizzò Luigi Comencini con un impareggiabile Nino Manfredi nel ruolo di Geppetto, con Gina Lollobrigida come Fatina dai capelli turchini e con la coppia Franchi – Ingrassia nei panni del gatto e della volpe? Oppure la versione
che la Walt Disney realizzò per il cinema? O ancora, ma è posteriore rispetto alla prima uscita del volume di cui si discorre, il concept album del cantautore partenopeo Edoardo Bennato, Burattino senza fili del 1977?
Insomma, Pinocchio ha attraversato ed attraversa ancora la storia, la vita, il mondo degli uomini: è un vero e proprio romanzo di formazione, cui occorre accostarsi – come metodologicamente ci insegna Decollanz – “seguendo la norma di dare rilievo ai fatti e fornire di essi un’interpretazione il più possibile realistica” (p. 116). I fatti, nel caso di Collodi – un mazziniano puro che credeva fermamente in una rivoluzione che ribalti lo stato delle cose presenti, nel riscatto degli umili, degli oppressi, ma che si trovava vivere in un mondo che aveva fatto della meschinità e dell’accomodamento il suo unico credo – erano rappresentati dagli enormi problemi politici, economici, sociali della stragrande maggioranza degli italiani nel Paese appena unito, prima, e nell’Italia umbertina, poi. “Nell’Italia dei Savoia, ligia alle regole dell’esteriorità, il Collodi, insieme con pochi altri, mantenne in vita la problematica di un’Italia nuova, di un’Italia diversa, più umana e più giusta nei confronti di tutti i suoi figli” (p. 122).
Per leggere il Pinocchio in modo ermeneuticamente euristico, il critico non si può non mettersi nell’ottica, conoscendola e condividendola a fondo, dell’Autore. L’opera di Collodi – argomentava, nel ’72, Giuseppe Decollanz – “fu condizionata, in ogni momento, dalla tradizione rivoluzionaria ed egli seppe esprimere in modo originale una delle maggiori attese del secolo scorso e cioè la sintesi rinnovatrice tra l’individuo e la storia. Il Pinocchio si pone così a metà strada tra I Promessi Sposi ed i Malavoglia” (p. 119). Pinocchio armonizza l’ottimismo manzoniano sul ruolo della Provvidenza nella storia ed il pessimismo verghiano sull’ineluttabilità di una situazione presente caratterizzata da miseria e rassegnazione, rimanendo fedele agli ideali che avevano animato il Risorgimento nazionale.
In quest’ottica, il personaggio del burattino che, al termine della storia, diventa un bambino è, ancora oggi nel XXI secolo, un esempio paradigmatico di un ‘poema pedagogico’: non un trattato di pedagogia, esclusivamente teorico e scientifico, ma una “favola istruttiva” (p. 125) che in corpore vili dona ampie suggestioni di grande valore educativo: “Il Pinocchio fu il classico sasso lasciato cadere nelle acque chete di uno stagno; fu l’esplosione, la ribellione, il rifiuto di norme e metodi retrogradi, la rivendicazione di un diritto da lunghi anni negato ai fanciulli: il diritto alla libertà che poi è il diritto alla stessa vita […] nel libro sono riaffermati i tradizionali princìpi della morale comune, della morale del buon senso, i princìpi della carità, della bontà, dell’altruismo, del martirio, dell’eroismo […] come elementi di vita reale e non più come norme astratte codificate dai grandi” (pp. 126 – 127 passim).
La misura della consapevolezza teorica di quanto affermato, in Collodi, riviene dalla sua storia di patriota risorgimentale – argomentava Decollanz con un’attualità sorprendente – “La favola istruttiva del burattino Pinocchio è la storia istruttiva della vita dell’uomo Collodi: il Pinocchio è un libro autobiografico, una confessione poetica rivissuta attraverso la fantasia, immersa nel mondo rarefatto della favola […] Nel Pinocchio c’è la famiglia, c’è la solidarietà,c’è il sacrificio e c’è la bontà […] c’è il desiderio di una società più giusta, c’è la visione di nuovi valori e di un nuovo costume; c’è la speranza di una storia più grande e più giusta” (pp. 128- 130).
La trasformazione del burattino in bambino/uomo è l’insegnamento dell’etica del lavoro quale fondamento della socialità: “il lavoro è il segno dell’onestà e della creatività, dell’impegno civile e del progresso sociale […] All’educazione dell’intelletto, alle scuole del leggere e dello scrivere Pinocchio e Collodi sostituiscono la scuola della vita, che è vera educazione alla libertà, o, se si preferisce, la scuola della libertà, che è vera educazione alla vita” (pp. 138 – 139).
Il messaggio radicalmente rivoluzionario di Collodi, nell’Italia umbertina, fu, in un certo senso ‘anestetizzato’, affinchè perdesse quella dirompente carica potenzialmente ‘eversiva’: si tratta insomma – concludeva Decollanz il suo testo del’72 – di superare gli schemi neoidealistici nella valutazione storiografica e critica della letteratura del secondo Ottocento in Italia per i quali essa doveva essere “ascesa costruttiva e verifica razionale della religione della libertà”, secondo l’idea crociana.
L’impressione che pervade ogni lettore che abbia avuto l’onore ed il piacere di conoscere Giuseppe Decollanz, al pari di chi scrive queste righe, leggendo o, eventualmente, rileggendo questo volume, è che nello studiare Collodi e nello scrivere questa monografia, egli abbia ha ricostruito la figura di uno dei suoi ‘maggiori’.
‘Socialista nel cuore’, come viene definito in modo scultoreo nella quarta copertina, e da sempre – come non ricordare il capitolo “L’occupazione delle terre” nell’autobiografico La guerra siamo noi. Storie dalla Basilicata(2008, I ediz.), in cui a Peppinillo viene affidato il compito di portare la bandiera rossa della Camera del lavoro di Montepeloso alla manifestazione del primo maggio 1945? – non poteva non vedere in Collodi un suo Maestro ideale, un fratello di fede pedagogica, sociale e politica: “La sua adesione all’ideale patriottico mazziniano fu la scelta che caratterizzò tutta la sua esistenza, scelta che in un certo senso la storia aveva preparato per lui, ma che egli non esitò a fare con l’entusiasmo dei giovani ma anche con la sincera passione dell’animo nobile. Rimase sempre una grande anima di patriota, anche durante gli anni difficili del decennio cavourriano, un grande mazziniano, un uomo onesto desideroso di giustizia, furono questi sentimenti che negli ultimi mesi della sua vita lo fecero avvicinare al socialismo che andava diffondendosi in Italia” (p. 19).
Non a caso, il messaggio politico-educativo di Collodi veniva da Giuseppe Decollanz accostato in un parallelismo fraterno a quello di Rocco Scotellaro, poeta del mondo contadino lucano, cui è dedicato un altro suo volume di racconti Ai margini del cratere (Bari 1980). Il nucleo dell’insegnamento dei due scrittori non può essere sintetizzato ancor oggi meglio di quanto non faccia l’esergo che, nel 1972, fu posto all’inizio diEducazione e Politica nel Pinocchio:”Ai bambini di tutto il mondo ed alle ‘teste di legno’, nella speranza che anche loro, prima o poi, come Pinocchio, escano dal ventre della balena per divenire, finalmente, donne e uomini liberi”.
La missione cui Giuseppe Decollanz ha dedicato per intero tutta la sua vita.